Influssi e spazi di flusso


Il tempo di flusso, la società di flusso, gli spazi di flusso…ma flussi verso dove? Sono forse modi per dire che l’orizzonte sociale e le speranze si spostano sempre più lontano ed il cambiamento fluisce sempre meno coerentemente verso l’idea di un mondo a misura d’uomo consapevole? Quanto tutto ciò condiziona il nostro esistere e creare?

I flussi di circolazione delle persone e soprattutto dei beni e i relativi equivalenti economici di guadagno, rientrano in quella dinamicità che i sociologi chiamano spazi di flusso. Vanni Codeluppi scrive che “il sistema capitalistico ha addirittura trovato la sua principale ragione d’essere in tali flussi, che tendono sempre più a creare un unico grande mercato globale. Ma nel corso degli ultimi anni, i flussi circolatori della società dell’ipermodernità si sono ancora di più intensificati e coinvolgono simultaneamente, oltre che persone, beni e capitali, messaggi relativi a pubblicità, moda design, arte, musica e cinema”[1]. L’economia dei flussi immateriali sopravanza dunque quella dei flussi materiali, quindi non solo la pubblicità spinge i consumatori verso beni del tradizionale sistema materiale ma anche verso idee, dottrine, progetti che devono circolare.  

Sara Gonzàlez si interessa soprattutto di queste due narrative, la città globale e gli spazi di flusso e spiega come queste narrative vengono usate dai politici. Fa l’esempio di Bilbao, una metropoli che ha scelto di vendersi come una città globale. Il documento del  piano strategico di Bilbao è uscito nel 1999 e afferma che “deve diventare una città per professionisti”. Citiamo parte dell’intervento di Gonzàlez: “Questa è una narrativa scalare perché i politici locali, quelli che gestiscono la città, narrano una città che deve scalare, che deve diventare globale, da città regionale deve diventare globale….Si basa su una classe di professionisti che stanno in quelli che possiamo chiamare spazi di flussi, che hanno facilità negli spostamenti, ma non tutti hanno questa possibilità, per esempio chi lavora con l’artigianato, ecc. quindi c’è chi rimane fuori da questi flussi. Allora è vero che il capitale è molto mobile, è vero che c’è una classe di professionisti che si possono spostare da un luogo all’altro, ma non per tutti i flussi sono così facili. Queste politiche scalari, come in questo caso le politiche che fanno i politici locali per far diventare le città globali, sono delle strategie per giustificare, difendere e anche imporre un particolare progetto scalare”[2].

In modo acuto e ironico Massimo Mazzone ci fa riflettere sul significato di queste due paroline magiche, “narrativa” e “scalare”  e  cioè “narrativa perché è un racconto, e scalare perché si occupa di tutto, dalle ‘nano-tecnologie’ alle ‘guerre-stellari’, cioè cambia la scala ma mantiene intatte tutte le strutture di dominio, di comunicazione, proprio le strutture del comando”.

Sempre Mazzone, ci descrive che cosa è una narrativa scalare urbana o meglio quello che la letteratura scientifica internazionale definisce narrativa scalare urbana. Egli spiega che è quel processo che si afferma prepotentemente oggi come genere letterario aulico celebrativo, prodotto da innumerevoli autori che, se da un lato ha influenzato la classe politica, ha tuttavia generato processi infrastrutturali giganteschi, politiche socioeconomiche, ha disegnato diversi modelli di welfare e ha avviato numerose speculazioni che hanno finito per ‘guidare’ le analisi degli intellettuali verso narrazioni sempre più funzionali agli interessi delle caste politico finanziarie. La narrativa scalare urbana è dunque un genere letterario aulico celebrativo molto in voga al giorno d’oggi, consiste nel promuovere con sistemi di marketing e propaganda, rifondazioni pseudoidentitarie suggestive, parte di una poderosa battaglia unilaterale, combattuta tra poteri costituiti o Enti nazionali e sovranazionali contro i singoli cittadini, per indurre i secondi a riconfermare spiritualmente e materialmente lo strapotere dei primi ed in definitiva la propria sottomissione [3].

Si usano queste narrative scalari urbane sulla competitività globale internazionale per giustificare degli investimenti che magari ai propri cittadini non interessano. Può darsi che questo tipo di progetti colleghino la città destinata a tale progetto alle altre città in questi flussi, però non è detto che questo tipo di progetti colleghino la città stessa ai suoi cittadini. Collegare in senso astratto la città ad altre città non risolve il problema concreto, per esempio, di collegare i quartieri poveri alla città. 

Tutto questo ci porta a capire che si tratta di un tipo di urbanizzazione in cui è vero che alcuni posti si collegano, ad esempio sarà vero che con la città della moda Milano rientrerà in questi flussi internazionali. Tale concezione però scavalca i cittadini, perché alcuni punti della città stessa rimangono scollegati.Quindi le narrative scalari urbane vengono usate da chi governa per giustificare le loro politiche di investimenti e far diventare le città più globali. Per globale intendono soprattutto in senso economico e finanziario come per esempio avere tante imprese che poi hanno altre filiali all’estero a loro collegate. Sono quindi solo flussi finanziari, di marketing, non di persone che viaggiano, e questo riguarda solo l’economia.In teoria le possibilità per una città sono infinite. Possono diventare città di piccoli quartieri, città culturali, città di immigrati, città in cui le differenze sociali sono ridotte; città per i pedoni, città a basso consumo energetico o città, come propone la Gonzàlez, di progetti scalari egemonici, cioè città dove il progetto si mostra come naturale, oggettivo e come neutrale, città dove un progetto non è una imposizione ma dove è la società stessa che chiede di diventare più competitiva e più internazionale.Affinché vengano attuate scelte meno imposte e più condivise, che è l’obiettivo che Sara Gonzàlez si prefigge attraverso la sua ricerca, e cioè “dimostrare che quello che ci si presenta come normale, per esempio fare diventare la città globale, non è neutrale ma invece una scelta politica, quindi come tale può essere contestata, almeno in democrazia”[4]potremmo, prima di tutto, porre maggior attenzione ai progetti che ci vengono proposti e non assimilarli acriticamente ed in seguito, essere propositivi.Dobbiamo, in definitiva, essere vigili e attivi perché termini come Globalizzazione, Piani Strategici, Riqualificazioni Urbane, Corridoi Strategici Europei, ma anche termini come Metropoli, Citta’ Globale o Città Infinita, come sottolinea ancora Mazzone “rappresentano delle Narrative Scalari Urbane, ossia sono prodotti letterari, romanzi, mitologie … che muovono energie reali e pertanto è opportuno scegliere bene a quale narrazione affidare il proprio destino o i destini di un popolo o di un territorio”[5].

INFILTRAZIONI D'ARTE NEI MURI DELL'INDIFFERENZA



“La costruzione degli spazi nella città è già stata ripartita tra discipline ben precise: 
il verticale è stato assegnato all'architettura, l'orizzontale all'architettura di paesaggio 
e la rete di linee che li attraversa e li collega all'ingegneria. La città ha tutti i progetti di cui ha bisogno. 
Affinché un'altra categoria - la public art - possa avere una funzione nel progettare gli spazi della città, 
l'arte deve tornare indietro ed usare uno dei suoi significati originari: l'astuzia. 
La public art deve stringersi dentro, introdursi sotto, e sovrapporsi su ciò che già esiste nella città. 
Il suo comportamento consiste in eseguire operazioni - che sembrano essere operazioni non necessarie - 
su ambienti già costruiti: aggiunge al verticale, sottrae all'orizzontale, moltiplica e divide la rete di linee che li connette…”.      Vito Acconci


Pubblico e privato, l’arte si insinua tra gli spazi



Dagli anni '90 singoli artisti o gruppi di artisti hanno sviluppato il proprio lavoro unito al processo di ridefinizione identitaria dell’individuo che abbiamo fin qui analizzato. È una rete di artisti che svolge una ricerca differenziata che corrisponde all'unica ricerca possibile oggi, quella che indaga costruzione del linguaggio (artistico) e costruzione di socialità. Un’arte estranea, in quanto indipendente dal sistema mercato ma invece ampiamente storicizzata nelle principali rassegne d'arte internazionali, che pone un’attenzione specifica al sociale, si interroga sulla crisi d’identità territoriale nella realtà urbana e sul concetto di comunità che sta cambiando sempre più velocemente per effetto della globalizzazione e, in definitiva, indaga le ridefinizioni democratiche che questo processo accompagna. 
L’obbiettivo generale è di rifuggire la negazione, la chiusura di ogni orizzonte (percettivo e relazionale) e la trappola del “non c’è soluzione”, con una consapevolezza etica ed estetica che può rendere visibile l’invisibile e far emergere i contrasti della società. 
Le opere, sensibili al sociale, spesso coinvolgono i cittadini rendendoli protagonisti e co-autori dell’evento, in un ottica della “meno competizione e più cooperazione”. Sono processi atti a provocare delle reazioni costruttive e di riflessione sul farsi dell’arte all’interno della collettività come strumento possibile di cambiamento e ipotesi di soluzioni.
Sempre più artisti, pur senza conoscersi, per un effetto di risonanza collettiva, hanno attuato una rinnovata modalità del fare artistico, hanno sentito l’urgenza di ripristinare il legame arte-vita. 
Le radici di questa possibilità creativa, piccolo frammento dell’attuale paesaggio artistico globale, sono in parte nell’ l’Internazionale Situazionista che, dal dopoguerra in poi, è forse stata il più importante tentativo collettivo di costruire una critica alle nuove forme di dominio che si sono create negli stati capitalisti avanzati, una critica rivoluzionaria al passo con l’arrivo del consumismo.
Programma dell’Internazionale Situazionista era il creare situazioni, definite come “la costruzione concreta di momentanei ambienti di vita e la loro trasformazione in momenti di una qualità passionale superiore” tramite l’ Urbanismo Unitario, un nuovo ambiente spaziale di attività dove l’arte integrale ed una nuova architettura potessero finalmente realizzarsi. Le situazioni erano l’opposto dello spettacolo (la forma di vita alienata imposta dal capitalismo avanzato) e rimettevano in discussione i modi di vivere e abitare.
Uno degli obbiettivi era, infatti, quello di praticare sperimentalmente alcune teorie architettoniche. L’idea di base (concepita precedentemente nel Movimento Lettrista) sosteneva che “l’ambiente influenza il comportamento delle persone che lo abitano, ed essendo l’architettura, nella quasi totalità dei casi, espressione fisica della volontà della classe dominante, l’ambiente urbano contribuisce attivamente alla coercizione psichica e fisica dei sudditi-cittadini” . Critica dell’architettura è quindi critica della società in generale.
Era il 1953 quando il poeta Ivan Chtcheglov scriveva un saggio intitolato Formulario per un nuovo urbanismo aprendo la strada alla psicogeografica (deriva sperimentale adottata dall’Internazionale Lettrista). Nello scritto Chtcheglov piange per la città moderna senza musica e senza geografia, e in cui le immaginazioni sono rimaste molto indietro la sofisticazione delle macchine. Chtcheglov descrive la sua città ideale, diretto risultato di una nuova architettura. Una città modificabile, con costruzioni caricate di potere evocativo, edifici simbolici rappresentanti diversi desideri in cui tutti abitano propria cattedrale privata. I diversi quartieri di questa città potrebbero corrispondere all’intera gamma di umori che ciascuno di noi incontra per caso nella vita di ogni giorno.
"Introduzione ad una critica della Geografia Urbana" di Debord continua sulla linea tracciata da Chtcheglov affermando che la psicogeografia potrebbe ritagliarsi lo studio delle leggi precise e degli effetti specifici dell’ambiente geografico sulle emozioni ed i comportamenti degli individui. La città va esplorata, come suggerito nel saggio, attraverso le derive, ovvero vagando senza meta lasciandosi guidare dall’ambiente circostante, oppure con giochi psicogeografici, ossia esplorando una città seguendo la mappa di un’altra. 
La ricerca psicogeografica mirava a gettare le basi per la costruzione di un nuovo ambiente, un’ambiente che permettesse un nuovo stile di vita liberato, più alto, più piacevole. 
L'artista Giuseppe Pinot Gallizio, nel 1956 organizza ad Alba il primo Congresso degli Artisti Liberati, con i componenti del MIBI (Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista) fra i quali il pittore danese Asger Jorn. Discutono di urbanismo unitario e concludono dichiarando la necessità di una costruzione integrale dell’ ambiente, che faccia uso delle tecniche e delle arti moderne e riconosca un’interdipendenza essenziale fra l’urbanismo unitario ed uno stile di vita futuro.
È interessante ricordare il lavoro concreto svolto, sul concetto dell’abitare, dell’olandese Constant che, finiti i lavori congressuali, resta ad Alba per continuare gli studi sull’urbanismo e sullo spazio. Qui lavora ad un progetto per la costruzione di un campo di nomadi accampati su un pezzo di terra di proprietà di Gallizio. Usando pareti divisorie mobili, il progetto è un esperimento per un nuovo modello di città basato sui principi di proprietà comune, mobilità e la possibilità di una modificazione continua dell’ambiente abitato.

S-cultura: il processo creativo dell’individuo che muove verso un’operatività sociale



Tutti sanno cos'è una statua, o cosa sia un monumento; tiranni, santi ed eroi, sono stati eretti in ogni epoca a memoria e monito, a celebrazione di ogni potere; tutti hanno frequentato cimiteri e chiunque capisce, seguendo il proprio sguardo, che queste cose non hanno molto a che vedere con l’essenza della scultura o con l'arte. La scultura, invece, sarebbe la costruzione di uno spazio tridimensionale che svolge il ruolo di riconfermare criticamente il nostro essere in un mondo pluridimensionale. Quindi, la scultura, sarebbe quella disciplina che genera un modello, un riferimento materiale e ripeto, tridimensionale, all'immaginario. Il cittadino, è il destinatario naturale dello scultore come lo è la città e la dimensione urbana-umana che è indissolubilmente legata, fin dalla polis, all'idea di democrazia; esistono varie correnti, varie declinazioni di questo approccio attuale alle cose dell'arte che vanno sotto il nome di site specific, arte-politica, arte pubblica, arte-natura, quello però che noi intendiamo sottolineare è l’innesto dell’intervento nel tessuto cittadino come una traccia che fa sorgere dubbi, che devia gli abituali comportamenti innescando un processo di riflessione ed aumentata consapevolezza di sé e del proprio esserci, ovviamente dove e quando lo spazio libero, ovvero adatto, per mezzo del gruppo o dell'artista, permetta l'operazione quale essa sia.
La questione evidentemente esubera dalla cultura dell'effimero... La temporaneità dell'atto è allo stesso tempo una scelta politica ma anche una necessità, ovvero risponde ad una certa “economia” interna. Avendo il Postmoderno, abolito l'identità in favore della costruzione del subalterno disidentitario, abolito la cultura in favore dello spettacolo pop, abolito la legge in favore della legge di mercato, abolito il cittadino in favore del consumatore, abolito la realtà in favore della narrazione, abolito la verità in favore dell'affermazione, della doxa, dell'opinione, l'artista, pur sopravvissuto a questo disastro, si trova in un day after... Il codice di lettura è stato talmente e potentemente stravolto da influenzare, condizionare ed in definitiva costringere all'adesione a tale schema ma tuttavia, un'atto di resistenza e di critica, un esercizio di libertà, è sempre possibile. Questa resistenza culturale alla colonizzazione consumista è spesso l'origine di tanti interventi di occupazione temporanea di spazi urbani e naturali con azioni tese a coinvolgere il pubblico in una discussione che rimette in gioco il normale senso dello spazio e, della relazione sociale. La Biennale di Venezia curata da Betsky attualmente in corso, soprattutto nel Padiglione Italia ai Giardini, curato da Emilano Gandolfi, mostra un'interessante panorama globale formato soprattutto da architetti, che lavorano in questi termini, solo che la chiama architettura sperimentale, mentre a mio avviso, per molti di loro, si dovrebbe parlare più propriamente di architettura relazionale. A questo punto si comprende perché prima di ogni intervento artistico, architettonico in uno spazio pubblico, è necessario indagare i rapporti che intercorrono tra il territorio, la rappresentazione del territorio, l’architettura, l’urbanistica ma anche la politica, l’economia e le dinamiche sociali. Dal momento che, nella maggior parte dei casi, l’arte nasce nelle città ed è per le città, non si può tralasciare nessun particolare del contesto in cui essa si sviluppa e vive. L’architetto Massimiliano Fuksas ci ricorda infatti “quanto sia importante per noi comprendere la tendenza fondamentale del nostro tempo, per indagare lo spazio che è spazio sociale e político prima ancora di essere spazio edilizio o geometrico”.
Il paesaggio contemporaneo è per la maggior parte artificiale, strutturato da diverse componenti, progettate e non progettate; è perciò evidente che per inserire un intervento artistico, per lavorare in quello spazio vuoto tra i pieni, è necessaria anche la conoscenza e l’integrazione di diverse discipline. Solo in questo modo si realizza il desiderio di fare proprio lo spazio in un paesaggio nel quale l’indeterminatezza diventa tributo e sfida alla creatività. L'arte, ridisegnando il territorio e comunicando visioni, utopie ed alterazioni della realtà, restituisce la percezione dei rapporti sociali attuali e possibili, delle relazioni di forza, delle possibilità partecipative. La città è divenuta un luogo abitato di interferenze artistiche che sollecitano la riflessione delle persone forse assuefatte alla pubblicità ma ancora attente a insoliti segnali di soccorso urbano. Parlo di soccorso urbano, perché oggi è in atto una prepotente privatizzazione di spazi e relazioni implicite in quegli spazi, che va dal giardinetto sotto casa (puntualmente recintato), al marciapiede per i bar, al monumento antico (letteralmente cancellato), ai centri storici (delegati ormai al turismo), dall'istruzione, alla sanità, all'acqua, sempre in nome dello sviluppo e del progresso, si recinta, si demolisce, si trasferisce, sempre dal pubblico al privato, in un progressivo impoverimento del soggetto, e l'arte, ormai è con la geografia e la sociologia, una delle poche discipline che aiuta il cittadino a riflettere sul senso e sul possesso dello spazio pubblico e privato. Pubblico vorrebbe dire di tutti, ma oggi pubblico è spesso percepito come di nessuno.
La normale concezione di un ambito privato, distante da quello pubblico, rallenta sia i processi della socialità che quelli di presa di posizione del singolo cittadino sul territorio. Questo infatti viene sentito come “terra di nessuno”. Perciò l’indagine artistica sullo spazio, rivolta al senso dell’abitare gli spazi pubblici e privati, propone un rinnovato rapporto tra queste due parti aprendo possibilità ad un nuovo modo di abitare che si “affaccia sul mondo”.

Abitare la città dei luoghi comuni: prospettive per la generazione Y


Per intervenire come artisti nella città è innanzitutto necessaria un’operazione di riappropriazione dello spazio, nell’ottica di una più ampia concezione di scultura (scultura costruita: Heerick, Kirkeby, Carrino, Mazzone; Scultura relazionale: Oiticica, Matta Clark, Antonio Manuel; Scultura sociale: Beuys) intesa come tutto lo spazio tridimensionale in cui ci muoviamo. Anche per vivere la città è importante comprendere che i linguaggi artistici hanno una pertinenza con la realtà delle persone, che il costruito intorno a noi condiziona la nostra esistenza se non prendiamo coscienza di dove siamo e continuiamo a subire il paesaggio.
Osservare gli edifici ma soprattutto la forma dei vuoti tra le cose, il rapporto tra esseri umani e architettura (come le persone vivono e usano gli spazi), tra natura e costruito, tra oggetti statici e in movimento è indispensabile per dare forma al nostro personale punto di vista sulla città.
Un lavoro didattico in questa direzione, l’applicazione concreta di quello che può apparire solo teoria, è stato svolto da me con gli studenti e studentesse di due classi del Liceo Artistico G. e Q. Sella di Biella nell’anno 2008: analisi di
percorsi rettilinei (da casa a scuola, da scuola ai giardini, ecc) in cui venivano catalogati fotograficamente tutti i materiali che compongono la città: i tipi di superfici, le texture, gli elementi ripetitivi del paesaggio urbano, la disposizione delle cose nello spazio e i dettagli più inosservati. E poi ancora la ricerca di quello che c’è dietro la coltre di polvere cioè dentro gli edifici abbandonati, sotto i ponti, dietro ai muri, oltre le siepi e i cancelli, sopra le cose dove la prospettiva modifica la percezione della città. Uno sviluppo di percorsi urbani concentrici nei quali l’indagine è partita dalla mappa della città, e la riappropriazione dello spazio è avvenuta percorrendo a piedi cerchi sempre più ampi attorno alla scuola. Le fotografie documentano l’edificio scolastico nei suoi vari aspetti (architettonici ecome luogo di relazioni) e ritraggono il giardino circostante, la strada, il quartiere; invadono con il loro sguardo la città, re-imparando a conoscerla.
Il nostro raccontarci o raccontare è sempre legato ad un luogo ma il luogo è tale se il nostro sguardo lo ri-conosce e ha creato un affezione ad esso. Ed è così che le teorie prendono vita nel contesto reale perché è qui che ci possiamo domandare
se la città che viviamo corrisponde a quella che desideriamo, è qui che tentiamo di ricollocarci nel paesaggio in modo più consapevole; solo dopo aver osservato, analizzato, compreso possiamo elaborare una nostra idea e un nostro progetto, anche artistico ma avendo presente che Il paesaggio, e nel nostro caso il paesaggio cittadino, è un insieme di cultura e natura, di forme mentali e forme costruite.

A tal proposito il gruppo artistico S.O.S. Società Occupazione Spazi dà vita, in modo provocatorio, al progetto La città dei luoghi comuni, per il un concorso EveryVille all’ XI Biennale di Venezia di Architettura 2008. Crea una città immaginaria, un luogo ipotetico che non ha una forma ma è relazioni umane, delle peggiori.
Questo progetto, elaborato per il concorso della Biennale, non va inteso come puro evento espositivo ma piuttosto come un invito a riflettere e contrastare ogni spinta razzista e antidemocratica che è presente dentro ognuno più profondamete di quanto si possa immaginare.
Una città che diventa l’espressione di alcuni luoghi comuni della mentalità italiana in ordine alla composizione etnografica e di nazionalità di migranti che vengono a stabilirsi temporaneamente o definitivamente in Italia, e riguardo le professioni, l’idea stessa di professionismo, di efficienza e di successo. Espressioni come “negri puzzolenti, arabi terroristi, zingari rapitori bambini, serbi assassini, ebrei avari, albanesi puttane” oppure “impiegati statali fannulloni, casalinghe represse, psichiatri pazzi, ballerini froci, calciatori dopatii” ecc. esprimono una comunicazione volgare e generica (quella dei luoghi comuni) che attua una condizione di vita opposta a quella della città che vorremmo veramente. Ogni città è popolata di luoghi comuni ed EveryVille potrebbe liberare tutte le città da questi luoghi, essere la necropoli della superficialità, l’apparato digerente del mondo.
Ad EveryVille viene servito il vero caffè napoletano da napoletani imbroglioni, gli zingari rubano e basta e i rumeni stuprano tutte le donne. Le strade sono piene di prostitute nigeriane e rumene che aspettano sopra cumuli d’immondizia. Ad EveryVille tutti credono alla pubblicità e finiranno come l’Accattone di Pasolini:
“Accattò, senti quel che te dice er profeta: oggi te vendi l’anello, domani la catenina, fra sette giorni pure l’orologio e fra settantasette giorni nun c’avrai nemmeno l’occhi per piagne”.
L’edificazione di EveryVille prende come modello la realtà italiana e nasce con lo scopo di convogliare il razzismo, le paure e il degrado verso un unico luogo liberando definitivamente le nostre città da tanta immondizia e di confinarli lontano per poterli vedere meglio e proseguire così un’opera di emancipazione dalle nostre idee più schifose.
Ad EveryVille certamente non incontreremo poesia o arte…nei teatri, si presentano nuovi modelli di automobili molto inquinanti, i telecomandi cambiano canali ma non possono spegnere gli schermi. La televisione risucchia tutto… non c’è tempo per la vita! Troppo occupati tutti nel mestiere della morte….Nelle scuole, col sostegno delle banche, s’ insegnano le ragioni dell’impresa, il Ministero degli Interni è accorpato al Ministero della Salute ed è diretto da un generale di corpo d’armata che è un medico psichiatra. Piazza del Lavoro nero, Piazza del Pregiudizio, Via della Dipendenza, Via dell’Ipocrisia, Rotonda degli Orientamenti sessuali, Corso degli Abusi in famiglia e l’Assessorato alle Privatizzazioni, il Centro di Assistenza e supporto per la distruzione della Pubblica Istruzione, l’Istituto Professionale per Assassini...sono solo alcuni luoghi di questa Everyville che esiste già in forma di quartiere in ogni città del mondo, ma soprattutto è acquartierata nella mente di ognuno di noi.
Solo la conoscenza della realtà delle cose e la presa di coscienza rispetto a dove e come viviamo può far sì che qualcosa cambi e che l'uomo torni a relazionarsi con il territorio come luogo dove affonda le proprie radici, avendone cura.